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Museo Egizio_Fiore di Loto (4)L’idea di questo blog nasce in maniera imprevista, in una serata insonne in cui i miei pensieri, aggrovigliati e indefiniti come i miei ricci, erano giunti a un punto morto. Accade spesso che aspirazioni e desideri, che sembrano infrangersi contro l’alienante frenesia della quotidianità, riemergano prepotentemente nel serale incontro con me stessa. Cerco di dormire ma la mia mente macina potenziali progetti in maniera autonoma, fino al momento in cui credo di avere trovato l’illuminazione. A quel punto, posso addormentarmi. Il risveglio ridimensiona inevitabilmente l’idea geniale che sembra diventare, tutto a un tratto, tristemente banale. Non questa volta, però!

Il mio cervello è iperattivo, e spesso neanche io riesco a stargli dietro, è invaso da riflessioni che mi piacerebbe condividere con persone consapevolmente o casualmente interessate, quindi l’idea del blog potrebbe essere un’ottima soluzione, anche se non sono una grande esperta di  comunicazione ma, si sa, la rete rende tutti più interessanti!

Ora, senza dilungarmi troppo, provo a illustrarvi la mia idea: ho voluto creare uno spazio virtuale in cui poter discutere, commentare, conoscere una parte dell’Italia meticcia, attraverso lo sguardo di chi, come me, vive la propria esistenza rimanendo in bilico (o in equilibrio?) su una linea in bianco e nero.

Un luogo in cui rendere tangibile la fusione tra mondi diversi e lontani, attraverso la condivisione di luoghi, libri, iniziative che ritengo possano rappresentare la mistione tra la mia vita nel Bel paese e le mie radici da (ri)scoprire.

Non ho pretese, è solo il mio punto di vista, ma se pensate che la mia idea, seppure non illuminante, possa incuriosirvi, ci rincontreremo presto su queste pagine, altrimenti, possiamo solo sperare di incontrarci per caso!

La forza della tradizione nutre la nostra modernità

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L’uscita del visual album Black is king di Beyoncé ha scatenato una sfilza di polemiche un po’ ovunque (forse più in Occidente che altrove), alcune delle quali comprensibili e in parte condivisibili, ma secondo me motivate da un carico eccessivo di aspettative e dal voler attribuire a un lavoro artistico e commerciale un ruolo che, per sua stessa natura, non ha la pretesa né la capacità di poter ricoprire.

Si tratta indiscutibilmente di un lavoro creativo e mediatico di alto livello, ma rappresenta in ogni caso un prodotto commerciale da vendere a un pubblico ben mirato e proposto attraverso strategie comunicative e di marketing ben studiate e, direi, riuscite.

In nessun modo può essere interpretato come un trattato di antropologia o una fotografia realistica della storia e della cultura del Continente, poiché questa visione sarebbe fuorviante e lascerebbe giustamente emergere tutta una serie di imprecisioni e passi falsi, soprattutto tenendo conto del fatto che l’Africa è un continente di 54 Stati e sarebbe difficile riunirli tutti in un video musicale di un’ora e trenta.

Ciononostante, la cosa buffa è che mentre in Italia ci si straccia le vesti per criticare l’immagine dell’Africa che viene veicolata in questo prodotto visuale, la stampa e i social ivoriani, ad esempio, sono molto più attratti ed entusiasti (a parte qualche accusa di satanismo dovuta all’uso di corna associate a Bafometto 😆 ) dal contributo che esso ha avuto nel mostrare al mondo alcuni talenti del paese: i gioielli di conchiglie cauri della creatrice Lafalaise Dion, gli abiti della stilista Loza Maléombho o i passi di danza in omaggio al defunto DJ Arafat (min. da 2.38 a 2.57 del video).

Non è mia intenzione dilungarmi sul risultato di questo lavoro che, personalmente ho apprezzato, né alimentare critiche o controbattere alle polemiche che ne sono scaturite. Tuttavia, c’è un aspetto che mi ha abbastanza disturbato nell’analisi che ne è stata fatta e riguarda in particolare l’idea secondo la quale sia scorretto e fastidioso a priori mostrare il continente africano nei suoi aspetti più tradizionali, a prescindere da come avvenga questo tipo di narrazione.

Si parla di un’Africa superata e romanzata, lontana dalla realtà e avvolta in un’aurea di tribalismo tanto caro a una visione tipica di quell’euro/americano centrismo carico di luoghi comuni e stereotipi.

Ma come mai gli aspetti più tradizionali delle culture nere africane devono essere sempre percepiti come qualcosa di svilente e arretrato anche quando l’intento è chiaramente quello di valorizzarli? Come se fossero in fondo essi stessi il problema e non il modo sprezzante e inferiorizzante in cui vengono normalmente presentati?

Le realtà nere africane sono molteplici e complesse, spesso difficilmente interpretabili da un occhio esterno che non ne conosce, né ne comprende, le dinamiche, ma sono secondo me accomunate dalla fusione costante e vitale tra modernità e tradizione che ne caratterizza tutto il tessuto socioculturale. Perché dovremmo trascurare questo elemento sostanziale nascondendoci dietro l’idea di voler creare nuovi immaginari?

È ovvio che le realtà africane non si limitino a una riproduzione asettica di costumi e rituali legati all’antichità, ma essi si ridefiniscono nel tempo mantenendo uno stretto legame con il passato e fondendosi al tempo stesso a una modernità che evolve secondo ritmi e percorsi diversi rispetto ad altri luoghi. Forse è questa sfumatura che sfugge e non consente di notare come questa fusione sia espressa, anzi esaltata, nel lavoro di Beyoncé, in cui accanto a re ed antenati, rituali e facce dipinte di caolino è presente anche un richiamo costante alla contemporaneità africana, fatta di realismo e avanguardismo.

Ovviamente, un eccesso di glamour e vanità nel modo in cui tutto è presentato in questo lavoro è innegabile, ma direi che esso si inserisce perfettamente nel contesto patinato in cui si colloca, ossia lo show business musicale internazionale da miliardi di dollari. Quindi di cosa dovremmo stupirci esattamente?

Perché non possiamo accettare l’idea che nel mio paese, ad esempio, esistano ancora re e regine, capi villaggio e notabili, palazzi reali e chefferie, riti iniziatici e cerimonie tradizionali, maschere sacre e danze mistiche, pretesse e guaritori, che svolgono ruoli concreti e simbolici nelle comunità e portano avanti usi e costumi ancestrali nel rispetto dei nostri antenati, ma anche in completa sintonia con la vita contemporanea fatta di coupé décalé, vita nei ghetti o in ambienti 100% VIP?

Fa un po’ sorridere il fatto che mentre gli afrodiscendenti si scandalizzano per queste cose pensando di difendere la dignità degli africani, questi ultimi le vivano con orgoglio e, senza troppo filosofeggiare, apprezzino semplicemente il fatto che questi aspetti della loro cultura (per quanto semplificati e ricamati ad hoc) vengano mostrati al mondo da una nuova prospettiva che, invece di svilirli e screditarli come spesso accade, prova per una volta a valorizzarli, pur con tutti gli scivoloni del caso.

Questa immagine è secondo me significativa, ritrae l’ex Primo Ministro ivoriano, Amadou Gon Coulibaly (RIP), in piedi di fronte al Re degli Abrons (etnia del dipartimento di Tanda, est della Costa d’Avorio) a cui porta i suoi omaggi. Nulla si progetta, né si realizza in Costa d’Avorio senza la benedizione degli antenati e l’accordo dei detentori del potere tradizionale, neanche quando si è una delle più alte cariche dello Stato!

Ora, è chiaro che non siamo tutti re e regine su un trono e che neanche i nostri avi lo fossero, ma siamo costretti per forza a cerca il pelo nell’uovo seduti nel confort del nostro salotto, senza sporcarci le mani, senza viaggiare, senza approfondire, senza immedesimarci, solo concentrandoci sulle storture del nostro passato quando esso non viene neanche riconosciuto come degno di nota e considerazione nel suo insieme?

Voglio dire, non ci si può limitare a cogliere il messaggio simbolico di fierezza ed orgoglio che questa regalità ideale (anche se in parte tutt’ora esistente) porta con sé e prenderne spunto per studiare, riscoprire, rivisitare e reinterpretare quella che è stata la storia dei nostri popoli partendo da prospettive diverse, locali, africane, orali, empiriche piuttosto che perderci in sterili polemiche su cose che forse neanche conosciamo troppo? Non è questo l’invito che ci viene rivolto aldilà del carrozzone mediatico utilizzato come strumento? Imparare a conoscere ed apprezzare le nostre origini africane?

Non so sinceramente quale sia il corretto “realismo africano” di cui si dovrebbe tener conto per raccontare la nostra storia in maniera neutra, ma comunque positiva, e inviterei coloro che sono in grado di farlo, possibilmente con i mezzi e la visibilità di Queen B, a farsi avanti per illuminarci. Penso in ogni caso che finché ciò non accadrà, noi afrodiscendenti e figli della diaspora dovremmo forse fermarci a riflettere su chi vogliamo essere e su cosa riteniamo importante trasmettere agli altri della nostra storia e del nostro passato.

Poiché ogni tanto ho l’impressione che se da una parte rivendichiamo visibilità e rispetto per noi stessi e per le nostre origini, dall’altro, non appena ne abbiamo l’opportunità, ne prendiamo le distanze. Non ci sentiamo riconosciuti da un’italianità che ci mette ai margini, ma allo stesso tempo viviamo con distacco (e talvolta rifiuto) la nostra africanità e tutto ciò che essa rappresenta.

Mi chiedo a questo punto se il vero problema siano Beyoncé e il suo egocentrismo megalomane ed americanocentrico o piuttosto il fatto che, volenti o nolenti, sia riuscita a colpire qualche nervetto scoperto. 😉

Rappresentatività degli afrodiscendenti: siamo sulla strada giusta?

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Spesso si parla della mancanza di rappresentatività degli afrodiscendenti all’interno della società italiana ed è un problema reale, profondo e generalizzato a tutti i contesti culturali, sociali e professionali nel paese. In quanto neri/misti, però, dimentichiamo talvolta che, se da un lato, è importante rivendicare il fatto che ci venga dato spazio in tutti gli ambiti che non tengono assolutamente conto della “diversità”, dall’altro, siamo anche noi stessi a doverli creare, pure sgomitando, questi spazi.

Ci chiediamo ormai da anni il perché, quando si tratti di scendere in piazza o di mostrarsi uniti in iniziative collettive, la presenza e la partecipazione di molti di noi sia sempre limitatissima. Le ragioni sono sicuramente molte e variegate, tuttavia, credo che un elemento da non sottovalutare sia la scarsa immedesimazione delle persone.

I giovani afrodiscendenti, come tutti i loro coetanei, non sono molto interessati alla politica o all’attivismo e ne è invece coinvolta solo una minima parte. Io stessa, non mi considero un’attivista, ma una persona normale che ama scrivere e condividere le proprie riflessioni in questo blog, che ha fatto scelte di vita un po’ controtendenza decidendo di ritornare nel paese di origine, ma che cerca di dare il proprio apporto quotidiano al cambiamento nella normalità di una vita come tante altre.

Quella vita reale in cui siamo per lo più impiegati, architetti, manovali, cuochi, postini, insegnanti, imprenditori, rider, medici, camionisti, giornalisti, magazzinieri, babysitter, studenti, traduttori e tanto altro ancora. Persone normali insomma, con talenti specifici o lavoratori qualsiasi, con carriere in evoluzione o situazioni professionali precarie, con obiettivi da raggiungere o semplicemente alla ricerca di un equilibrio personale come chiunque in questo mondo.

Credo che il nostro obiettivo comune sia quello di ottenere una rappresentatività a tutto tondo che possa garantire spazi di manovra e di espressione a tutte queste individualità, non solo nel mondo dello spettacolo o della comunicazione. Dovremmo sensibilizzare i nostri fratelli e sorelle ad essere protagonisti e ad agire in qualsiasi contesto essi operino, a battersi per diventare ciò che desiderano senza lasciarsi schiacciare dalle pressioni esterne che li vorrebbero tutti in professioni o ruoli stereotipati.

#prendiamolaparola a prescindere dai follower e dalla visibilità, dall’eccezionalità delle nostre esperienze e dall’eccentricità della nostra immagine. Il messaggio che spesso arriva è che per esser accettati e accettabili dobbiamo dimostrare di essere straordinari, ma in realtà niente e nessuno ci obbliga ad esserlo. È nella nostra semplicità che possiamo tutti contribuire a questa battaglia: negli uffici, nelle scuole, nei centri commerciali, nelle aziende, nelle istituzioni, negli ospedali, ovunque!

Sono certamente convinta che sia importante avere modelli positivi e vincenti che possano essere d’ispirazione per le nuove generazioni, ma cerchiamo di non offuscare questa normalità nel tentativo di (di)mostrare un’afroitalianità troppo glamour ed elitaria.

Vi lascio con alcune domande che mi pongo già da un po’ e alle quali non ho ancora trovato risposta. Voi cosa ne pensate? Sono dinamiche che avete notato o sulle quali vi è capitato di riflettere?

  • Il vicino Luigi o la collega Fatou possono veramente riconoscersi ed immedesimarsi nel mondo e nella pelle di Carla l’influencer o Salim il re delle piazze?
  • Non rischiamo di creare una schiera di ammiratori invece che una generazione di protagonisti e aumentare un sentimento di frustrazione e inadeguatezza in coloro che già si sentono invisibili, ma che anche noi lasciamo comunque fuori dal dibattito?
  • Siamo sicuri che non stiamo costruendo un’élite di aspiranti politici e intellettuali afrodiscendenti lontani dalle persone comuni a cui si vorrebbe dar voce?
  • Che la quasi totale assenza di afrodiscendenti a dibattiti, conferenze, eventi, presentazioni che in teoria parlano di loro (e che piacciono tanto a chi detiene il privilegio bianco) non sia la conseguenza diretta di questa “distanza”?
  • Ha senso parlare per tecnicismi quando si tratta di riforma della cittadinanza o proporre testimonial da mettere su un piedistallo per stimolare l’interesse e la mobilitazione dei tanti giovani direttamente coinvolti, ma scarsamente implicati?
  • Quali potrebbero essere le strategie, anche comunicative, per superare questo divario se realmente esiste?

A voi i commenti!

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MeticciaMente, quel ponte di storie e culture tra Roma e Abidjan

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È stato un vero piacere fare due chiacchiere con l’amica Antonella Sinopoli, giornalista di diverse testate con base in Ghana, che ha lanciato la rubrica #afroitaliani per Voci Globali. Un progetto molto interessante e che vi consiglio di seguire perché offre una prospettiva diversa dando a noi la possibilità di raccontarci e di mostrarci nella nostra normalità.

Abbiamo parlato della mia storia e della mia decisione di fare il percorso inverso, ossia partire dall’Italia per trasferirmi in Costa d’Avorio.
È un’occasione per farvi scoprire un po’ della cultura ivoriana, ma anche per provare a scardinare quei #pregiudizi che con il tempo creano fratture tra persone e società.

Un piccolo assaggio delle #tradizioni e della vita quotidiana ad #Abidjan e dintorni e la storia di chi è cresciuta in una famiglia mista con il vantaggio di avere diversi punti di vista.

Buona visione! 

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Fuori campo 2 – Riflessioni sul ruolo di seconde generazioni e diaspore nei rapporti con l’Africa

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E’ stata veramente una bella chiacchierata con Rosanna Martucci dell’associazione Kenda onlus – Cooperazione tra popoli e Cleophas Adrien Dioma, Coordinatore del Summit delle diaspore africane in Italia, piena di interessanti spunti di riflessione sulla necessità di analizzare e considerare con nuove prospettive i flussi migratori, sul ruolo fondamentale delle diaspore e delle seconde generazioni nei rapporti con il continente africano, sul’importanza di dare spazio ai giovani nelle realtà africane contemporanee, su cooperazione, rimesse estere e imprenditoria.

Sono tutte questioni che andrebbero certamente sviluppate e approfondite, ma è stato importante parlarne insieme, perché abbiamo veramente bisogno di dibattiti costanti e confronti a più livelli che aprano le porte a nuove narrazioni su tali tematiche.

Buona visione! 

Perché è scorretto parlare di razzismo sistemico tra neri africani

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Una delle frasi che ho sentito più spesso in queste settimane, con l’obiettivo di sminuire le proteste contro il razzismo anti-nero in Occidente, è stata: “Anche i neri africani sono razzisti tra loro”.

Quando sento questa affermazione penso che le persone non abbiano ben chiaro il concetto di razzismo nella sua valenza storica e sociale. Questa è la definizione sintetica del vocabolario Treccani:

Ideologia, teoria e prassi politica e sociale fondata sull’arbitrario presupposto dell’esistenza di razze umane biologicamente e storicamente “superiori”, destinate al comando, e di altre “inferiori, “destinate alla sottomissione, e intesa, con discriminazioni e persecuzioni contro di queste, e persino con il genocidio, a conservare la “purezza” e ad assicurare il predominio assoluto della pretesa razza superiore.

La razza è a sua volta definita come:

Popolazione o gruppo di popolazioni che presentano particolari caratteri fenotipici comuni (colorito della pelle, tipo dei capelli, forma del viso, del naso, degli occhi, ecc.), indipendentemente da nazionalità, lingua, costumi […]. Tale suddivisione ha costituito il preteso fondamento scientifico per una concezione delle razze umane come gruppi intrinsecamente differenti e da porre in rapporto gerarchico l’uno rispetto all’altro […].

È ovvio che nessuno di noi (spero) sostenga ancora l’esistenza delle razze biologiche, perché la razza umana è una sola, tuttavia, questo termine è utilizzato quando si parla di razzismo/antirazzismo in riferimento ai diversi gruppi sociali gerarchizzati sulla base delle loro caratteristiche fenotipiche. Per intenderci, sappiamo tutti ad esempio che i bianchi e i neri fanno parte di un’unica razza, ma la società riproduce dinamiche politiche e sociali razzializzate che pongono questi ultimi in una posizione subalterna a causa delle loro caratteristiche fisiche.

Da queste definizioni, mi sembra già chiaro il fatto che sia un controsenso parlare di razzismo tra gruppi che hanno identiche caratteristiche fenotipiche e che l’elemento razzializzante non possa essere riconducibile alla sola nazionalità, lingua, cultura o religione di uno specifico gruppo. Per questo, ad esempio, in Africa sub sahariana si parla più spesso di xenofobia, il sentimento di avversione e ostilità nei confronti degli stranieri, poiché la maggior parte delle discriminazioni è dovuta a sentimenti nazionalisti e territoriali che poco o nulla hanno a che vedere con il colore della pelle o le caratteristiche fisiche e biologiche degli individui o delle comunità.

Tra l’altro, molti dei conflitti locali vengono immediatamente identificati come inter-etnici sulla base di un filtro interpretativo che si limita spesso alla sola superficie, essendo molto difficile per gli osservatori esterni possedere una conoscenza approfondita della storia e dei contesti locali specifici in cui essi si concretizzano. D’altro canto, anche i poteri locali, hanno interesse a lasciar passare questa interpretazione che consente di attribuire responsabilità dirette alle popolazioni, offuscando il ruolo che scelte politiche e interessi economici giocano all’interno di contesti sociali nei quali le colpe e le carenze degli Stati sono spesso evidenti e strutturali.

Una delle principali ragioni di conflittualità riguarda infatti la gestione e il controllo dei territori e delle risorse, non soltanto a livelli nazionali e macroeconomici (all’origine di guerre decennali nel Continente in cui l’intervento di attori esterni ha sempre avuto un ruolo fondamentale nell’intensificare le fratture anziché placarle), ma anche a livelli di sussistenza. In un continente in cui l’origine geografica e le abitudini comunitarie incidono fortemente anche sulle attività che si svolgono per vivere e in cui la maggior parte delle popolazioni è ancora dedita a lavori primari come allevamento, pesca ed agricoltura, l’amministrazione delle terre e delle risorse ha un ruolo primario nelle diatribe molto più che l’aspetto etnico o religioso dei gruppi coinvolti.

Gli agricoltori stanziali cristiani si scontrano con gli allevatori nomadi o semi-nomadi mussulmani perché rovinano i loro raccolti non per la fede che professano; i pescatori locali si disputano con gruppi provenienti da coste in cui la pesca non è più redditizia perché sottraggono le loro risorse ittiche e sconvolgono i loro equilibri di sussistenza non perché appartengano ad un’altra etnia; la concessione a gruppi alloctoni di terreni coltivabili appartenenti a una comunità rurale da parte dei capi terrieri diventa ragione di controversia quando si rivendicano diritti di proprietà illegittimi sulla base di un’occupazione prolungata non perché chi compie l’abuso abbia un colore o una sfumatura diversi e così via.

Pertanto, la categorizzazione etnica è spesso uno specchietto per le allodole che si utilizza per solleticare risentimenti preesistenti, anche profondi, ma di altra natura, allo scopo di innescare un motore identitario facilmente strumentalizzabile in grado di ridurre vecchie e nuove rivendicazioni economiche, politiche, culturali e sociali, delle quali i governi non sono in grado di farsi carico, a una generica intolleranza inter-etnica.

azziQuesto non vuol dire che in Africa non esistano discriminazioni e pregiudizi, ma non hanno nulla a che vedere con il razzismo strutturale di cui si parla molto in Occidente, soprattutto in questo periodo. Esso è un sistema nel quale si intrecciano metodicamente scelte politiche, pratiche istituzionali, rappresentazioni culturali e dinamiche sociali che perpetuano una disparità di trattamento su base razziale, all’interno del quale si attribuisce, da un lato, un valore normalizzante e privilegiato a tutto ciò che è riconducibile al gruppo dominante, identificato un po’ ovunque con la bianchezza, e, dall’altro, un ruolo subalterno e una posizione di svantaggio a tutti coloro che appartengono invece alle minoranze razzializzate.

Non si tratta quindi di generiche discriminazioni perpetrate da alcuni membri o parte delle istituzioni all’interno di una società, ma di un concatenarsi di pratiche sociali, economiche, politiche e culturali che strutturano dalle fondamenta il sistema stesso in cui si vive.

In quest’ottica, possiamo dire che esista anche in Africa un razzismo strutturale che si basa anch’esso sullo stesso principio di razzializzazione della società di cui si parlava in precedenza.

Pensiamo ad esempio ai paesi del Maghreb dove il razzismo anti-nero e i sistemi di schiavitù da parte dei gruppi di origini arabe-berbere sono una piaga secolare ancora molto putrida e della quale si parla ancora troppo poco.

Non sto assolutamente sminuendo l’importanza e l’impatto di queste realtà sul Continente, ma vorrei che si riuscisse ad analizzare un argomento così complesso come il razzismo strutturale avendo ben chiaro ciò di cui stiamo parlando e contestualizzando i fatti e le realtà senza mescolare tutto in un unico calderone.

Per questa ragione, ho deciso di condividere con voi quest’altro breve post in cui vi parlo di uno degli aspetti più interessanti della varietà culturale della Costa d’Avorio (e immagino di altri paesi africani): le alleanze inter-etniche. Tale elemento non solo si ricollega all’argomento di questo articolo, ma credo mostri quanto sia controproducente generalizzare su tali tematiche, senza tenere conto delle specificità dei singoli paesi e della loro storia quando si parla di Africa o di popoli africani.

Ritengo che il continente africano e le comunità nere in generale abbiano indubbiamente molti problemi irrisolti, sono anche convinta però che andrebbero affrontati tenendo conto delle relative peculiarità e potremmo trovare dei tempi e degli spazi specifici per farlo e discuterne. Quando invece si parla di razzismo in Italia, cerchiamo di concentrarci su quello e non deviare l’attenzione su altro perché credo sia poco utile addentrarsi in similitudini tra contesti molto diversi, soprattutto se non si conoscono fino in fondo le realtà che si vorrebbero porre a confronto.

Mettendo quindi insieme tutti gli elementi di queste lunghe premesse, ossia l’elemento fenotipico che è alla base della razzializzazione sociale, le diverse modalità in cui i sistemi sociali si sono sviluppati nel tempo e nel corso della storia, l’impatto del privilegio bianco nelle dinamiche globali degli ultimi secoli, dubito fortemente che si possa comparare il razzismo strutturale in Occidente con altri tipi di intolleranze e discriminazioni (seppure diffuse) tra neri in Africa. Mi spaventano anche le teorie che individuano nelle diversità etniche e culturali uno dei principali problemi del continente africano e delle nostre realtà multietniche perché non è certo attraverso l’appiattimento delle specificità di ognuno che potremo ritenerci soddisfatti delle società che andremo a costruire.

Le alleanze inter-etniche in Costa d’Avorio

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Le alleanze inter-etniche sono dei patti di non-aggressione e di sostegno reciproco tra i differenti gruppi etnici (oltre 65 nel paese), stabilite dagli antenati sulla base di storie reali o leggendarie. L’origine di questi patti poteva dipendere dalla necessità di risolvere delle ostilità o suggellare la condivisione di circostanze della vita tra popoli, come durante i lavori forzati in epoca coloniale in cui gruppi diversi si incontravano ed erano costretti alla convivenza in situazioni di estrema difficoltà.

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L’importanza per niente banale di film, statue e cioccolatini

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Giusto per capirci al volo, quando dite che, con tutte le cose che succedono e che si dovrebbero fare per contrastare il razzismo, è superficiale e ipocrita pensare di rimuovere i film, abbattere le statue ed eliminare i cioccolatini, credo che vi manchi qualche pezzo fondamentale del puzzle.

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#prendiamolaparola

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In questi giorni si terranno in tutta Italia numerose manifestazioni a sostegno della causa antirazzista negli Stati Uniti. È importante che tutti si mobilitino come possono per dire basta alle discriminazioni sistematiche a cui assistiamo quasi quotidianamente nella realtà statunitense, ma non dovremmo fare l’errore di considerarle un’eccezione legata a quel contesto specifico.

Sarebbe bello se questo moto di solidarietà non restasse focalizzato solo sui riflettori che ha acceso questa vicenda, ma che si riuscisse a fare luce anche sulle realtà in cui interagiamo quotidianamente.

Sappiamo tutti che l’Italia ha una storia molto diversa rispetto a quella di altri paesi, ma non possiamo ignorare che anche il nostro passato si inserisca in un unico filone storico di soprusi, prevaricazioni e pregiudizi nei confronti dei neri. Di conseguenza, anche la nostra è una società intrinsecamente razzializzata, che si fonda su un’idea di superiorità culturale ed etnica rispetto alle minoranze che la abitano.

Per provare a contestualizzare l’ambito di questa lotta planetaria al nostro universo, un gruppo di neri italiani ha lanciato gli hashtag #prendiamolaparola e #speakupitaly, invitando i diretti interessati ad esprimersi per raccontare il razzismo vissuto ogni giorno sulla loro pelle.

In risposta a questa proposta, alcuni di noi hanno deciso di mettersi insieme per realizzare dei contenuti di vario tipo attraverso i quali dar voce alle proprie esperienze, fatte di micro-aggressioni quotidiane e discriminazioni sistematiche.

Invito quindi tutti gli italiani neri e/o di origine straniera a pubblicare i loro contenuti sui rispettivi social utilizzando gli hashtag #prendiamolaparola e #speakupitaly.

Invito tutti gli altri all’ascolto e alla condivisione dei contenuti utilizzando gli stessi hashtag. Non vogliamo escludervi, ma desideriamo che le nostre voci siano, almeno questa volta, messe in primo piano!

Grazie a tutt@

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Finché avrò fiato…

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Da qualche giorno mi manca, ma non è la prima volta. Vivo e respiro, ma troppo spesso il fiato s’intoppa. Si blocca in gola e mi fermo a pensare. Mi dico che le cose non cambieranno mai, perché gli anni passano, le proteste si susseguono, ma sembra tutto ancora come prima.

Le aggressioni nei confronti dei neri si moltiplicano e i morti pure. Negli USA certo, ma anche in Brasile, in Medio Oriente, in Asia e in Europa, persino in Africa. In mare o su terra. Fisicamente rinchiusi o psicologicamente oppressi. È una mattanza di neri, dei loro corpi e delle loro anime, ovunque e ogni giorno.

Tutto questo perché in realtà continuiamo a non dire le cose come stanno. Abbiamo la tendenza a semplificarle con definizioni troppo nette, ma per questo imprecise. Ne sviliscono i significati e ce le fanno sembrare meno complesse di quel che sono. Tutto sembra casuale e scollegato dal resto, ci tocca ogni tanto, ma più spesso ci sfiora di striscio e andiamo avanti. Continua a leggere

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