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L’uscita del visual album Black is king di Beyoncé ha scatenato una sfilza di polemiche un po’ ovunque (forse più in Occidente che altrove), alcune delle quali comprensibili e in parte condivisibili, ma secondo me motivate da un carico eccessivo di aspettative e dal voler attribuire a un lavoro artistico e commerciale un ruolo che, per sua stessa natura, non ha la pretesa né la capacità di poter ricoprire.

Si tratta indiscutibilmente di un lavoro creativo e mediatico di alto livello, ma rappresenta in ogni caso un prodotto commerciale da vendere a un pubblico ben mirato e proposto attraverso strategie comunicative e di marketing ben studiate e, direi, riuscite.

In nessun modo può essere interpretato come un trattato di antropologia o una fotografia realistica della storia e della cultura del Continente, poiché questa visione sarebbe fuorviante e lascerebbe giustamente emergere tutta una serie di imprecisioni e passi falsi, soprattutto tenendo conto del fatto che l’Africa è un continente di 54 Stati e sarebbe difficile riunirli tutti in un video musicale di un’ora e trenta.

Ciononostante, la cosa buffa è che mentre in Italia ci si straccia le vesti per criticare l’immagine dell’Africa che viene veicolata in questo prodotto visuale, la stampa e i social ivoriani, ad esempio, sono molto più attratti ed entusiasti (a parte qualche accusa di satanismo dovuta all’uso di corna associate a Bafometto 😆 ) dal contributo che esso ha avuto nel mostrare al mondo alcuni talenti del paese: i gioielli di conchiglie cauri della creatrice Lafalaise Dion, gli abiti della stilista Loza Maléombho o i passi di danza in omaggio al defunto DJ Arafat (min. da 2.38 a 2.57 del video).

Non è mia intenzione dilungarmi sul risultato di questo lavoro che, personalmente ho apprezzato, né alimentare critiche o controbattere alle polemiche che ne sono scaturite. Tuttavia, c’è un aspetto che mi ha abbastanza disturbato nell’analisi che ne è stata fatta e riguarda in particolare l’idea secondo la quale sia scorretto e fastidioso a priori mostrare il continente africano nei suoi aspetti più tradizionali, a prescindere da come avvenga questo tipo di narrazione.

Si parla di un’Africa superata e romanzata, lontana dalla realtà e avvolta in un’aurea di tribalismo tanto caro a una visione tipica di quell’euro/americano centrismo carico di luoghi comuni e stereotipi.

Ma come mai gli aspetti più tradizionali delle culture nere africane devono essere sempre percepiti come qualcosa di svilente e arretrato anche quando l’intento è chiaramente quello di valorizzarli? Come se fossero in fondo essi stessi il problema e non il modo sprezzante e inferiorizzante in cui vengono normalmente presentati?

Le realtà nere africane sono molteplici e complesse, spesso difficilmente interpretabili da un occhio esterno che non ne conosce, né ne comprende, le dinamiche, ma sono secondo me accomunate dalla fusione costante e vitale tra modernità e tradizione che ne caratterizza tutto il tessuto socioculturale. Perché dovremmo trascurare questo elemento sostanziale nascondendoci dietro l’idea di voler creare nuovi immaginari?

È ovvio che le realtà africane non si limitino a una riproduzione asettica di costumi e rituali legati all’antichità, ma essi si ridefiniscono nel tempo mantenendo uno stretto legame con il passato e fondendosi al tempo stesso a una modernità che evolve secondo ritmi e percorsi diversi rispetto ad altri luoghi. Forse è questa sfumatura che sfugge e non consente di notare come questa fusione sia espressa, anzi esaltata, nel lavoro di Beyoncé, in cui accanto a re ed antenati, rituali e facce dipinte di caolino è presente anche un richiamo costante alla contemporaneità africana, fatta di realismo e avanguardismo.

Ovviamente, un eccesso di glamour e vanità nel modo in cui tutto è presentato in questo lavoro è innegabile, ma direi che esso si inserisce perfettamente nel contesto patinato in cui si colloca, ossia lo show business musicale internazionale da miliardi di dollari. Quindi di cosa dovremmo stupirci esattamente?

Perché non possiamo accettare l’idea che nel mio paese, ad esempio, esistano ancora re e regine, capi villaggio e notabili, palazzi reali e chefferie, riti iniziatici e cerimonie tradizionali, maschere sacre e danze mistiche, pretesse e guaritori, che svolgono ruoli concreti e simbolici nelle comunità e portano avanti usi e costumi ancestrali nel rispetto dei nostri antenati, ma anche in completa sintonia con la vita contemporanea fatta di coupé décalé, vita nei ghetti o in ambienti 100% VIP?

Fa un po’ sorridere il fatto che mentre gli afrodiscendenti si scandalizzano per queste cose pensando di difendere la dignità degli africani, questi ultimi le vivano con orgoglio e, senza troppo filosofeggiare, apprezzino semplicemente il fatto che questi aspetti della loro cultura (per quanto semplificati e ricamati ad hoc) vengano mostrati al mondo da una nuova prospettiva che, invece di svilirli e screditarli come spesso accade, prova per una volta a valorizzarli, pur con tutti gli scivoloni del caso.

Questa immagine è secondo me significativa, ritrae l’ex Primo Ministro ivoriano, Amadou Gon Coulibaly (RIP), in piedi di fronte al Re degli Abrons (etnia del dipartimento di Tanda, est della Costa d’Avorio) a cui porta i suoi omaggi. Nulla si progetta, né si realizza in Costa d’Avorio senza la benedizione degli antenati e l’accordo dei detentori del potere tradizionale, neanche quando si è una delle più alte cariche dello Stato!

Ora, è chiaro che non siamo tutti re e regine su un trono e che neanche i nostri avi lo fossero, ma siamo costretti per forza a cerca il pelo nell’uovo seduti nel confort del nostro salotto, senza sporcarci le mani, senza viaggiare, senza approfondire, senza immedesimarci, solo concentrandoci sulle storture del nostro passato quando esso non viene neanche riconosciuto come degno di nota e considerazione nel suo insieme?

Voglio dire, non ci si può limitare a cogliere il messaggio simbolico di fierezza ed orgoglio che questa regalità ideale (anche se in parte tutt’ora esistente) porta con sé e prenderne spunto per studiare, riscoprire, rivisitare e reinterpretare quella che è stata la storia dei nostri popoli partendo da prospettive diverse, locali, africane, orali, empiriche piuttosto che perderci in sterili polemiche su cose che forse neanche conosciamo troppo? Non è questo l’invito che ci viene rivolto aldilà del carrozzone mediatico utilizzato come strumento? Imparare a conoscere ed apprezzare le nostre origini africane?

Non so sinceramente quale sia il corretto “realismo africano” di cui si dovrebbe tener conto per raccontare la nostra storia in maniera neutra, ma comunque positiva, e inviterei coloro che sono in grado di farlo, possibilmente con i mezzi e la visibilità di Queen B, a farsi avanti per illuminarci. Penso in ogni caso che finché ciò non accadrà, noi afrodiscendenti e figli della diaspora dovremmo forse fermarci a riflettere su chi vogliamo essere e su cosa riteniamo importante trasmettere agli altri della nostra storia e del nostro passato.

Poiché ogni tanto ho l’impressione che se da una parte rivendichiamo visibilità e rispetto per noi stessi e per le nostre origini, dall’altro, non appena ne abbiamo l’opportunità, ne prendiamo le distanze. Non ci sentiamo riconosciuti da un’italianità che ci mette ai margini, ma allo stesso tempo viviamo con distacco (e talvolta rifiuto) la nostra africanità e tutto ciò che essa rappresenta.

Mi chiedo a questo punto se il vero problema siano Beyoncé e il suo egocentrismo megalomane ed americanocentrico o piuttosto il fatto che, volenti o nolenti, sia riuscita a colpire qualche nervetto scoperto. 😉