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Da qualche giorno mi manca, ma non è la prima volta. Vivo e respiro, ma troppo spesso il fiato s’intoppa. Si blocca in gola e mi fermo a pensare. Mi dico che le cose non cambieranno mai, perché gli anni passano, le proteste si susseguono, ma sembra tutto ancora come prima.

Le aggressioni nei confronti dei neri si moltiplicano e i morti pure. Negli USA certo, ma anche in Brasile, in Medio Oriente, in Asia e in Europa, persino in Africa. In mare o su terra. Fisicamente rinchiusi o psicologicamente oppressi. È una mattanza di neri, dei loro corpi e delle loro anime, ovunque e ogni giorno.

Tutto questo perché in realtà continuiamo a non dire le cose come stanno. Abbiamo la tendenza a semplificarle con definizioni troppo nette, ma per questo imprecise. Ne sviliscono i significati e ce le fanno sembrare meno complesse di quel che sono. Tutto sembra casuale e scollegato dal resto, ci tocca ogni tanto, ma più spesso ci sfiora di striscio e andiamo avanti.

Mettiamo a fuoco un elemento sbagliato che rende sfocato tutto quello che c’è intorno, ma è questo contorno che conta. Finché non ci concentreremo sul focus giusto e ci rifiuteremo di declinarlo in tutte le sue sfaccettature non potremo fare nulla per cambiare le cose. Resteremo con la convinzione di dare il nostro contributo, neri e non, continuando invece a fare un passo in avanti e dieci all’indietro.

Con l’uccisione di George Floyd (Rest in Power!), l’attenzione di tutti si è concentrata sull’America bianca suprematista, con un contorno di Trumpettisti, brutalità delle forze dell’ordine e generica discriminazione verso le minoranze. Tutto vero e reale. Ma questi sono elementi “secondari”. Sono le conseguenze non la causa. Il poliziotto Derek Chauvin è indubbiamente uno di quelli che preferirebbero un’America bianca, che ha abusato dell’autorità di cui godeva per sfogare le sue frustrazioni razziste, ma alla base di tutto questo c’è il suo privilegio. Quello che esprime con la sua aria serena mentre umilia e uccide una vittima innocente, convinto di essere nel giusto e di farla franca.

problackQuello di essere un uomo bianco della classe media inserito in un sistema che lo individua come il soggetto dominante, attorno al quale si è costruita una società che lo mantiene al centro, come punto di riferimento assoluto. Lui rappresenta la normalità, intesa come soglia collettivamente tollerabile al di sotto della quale tutto il resto è marginale e marginalizzabile. L’uomo nero si trova molto più in basso, ad un livello minimo di accettabilità e considerazione.

Questo è il focus da cui dovremmo partire, il privilegio, da cui si ramifica una struttura sociale incentrata su abusi e prevaricazioni normalizzate, addirittura istituzionalizzate, ecco il contorno. Perché è vero che le responsabilità di questi atti violenti sono sempre individuali, ma si inseriscono in un sistema che ci ricorda ogni giorno che la diversità può essere tollerabile solo se non incide sulla normalità percepita dalla società in cui viviamo e, evidentemente, tutto ciò che non è bianco e occidentale non sembra farne parte.

Il problema è statunitense, ma non solo. Riguarda i neri, ma non solo. È troppo facile inorridirsi per un caso tragico come questo e criticare una realtà così distante. È una distanza geografica, culturale ed emotiva che ci fa sentire migliori e diluisce le nostre responsabilità. Ma come reagite da testimoni di micro aggressioni quotidiane? Come vi ponete quando i neri parlano di razzismo? Quanto vi mettete in discussione sentendo parlare di privilegio bianco? Perché tragedie come questa sono la conseguenza più estrema di dinamiche che si perpetuano ogni giorno, sotto i nostri occhi, anche in Italia. E ci si gira puntualmente dall’altra parte.

Con il privilegio di poter rispondere: “Non te la prendere”, “Siamo tutti uguali”, “Io non vedo il colore”, “Basta con il vittimismo”, “Questo è razzismo al contrario”, si continua la propria vita tranquilla, mentre migliaia di corpi neri sono vittime dell’indifferenza. Dai soprusi quotidiani nei contesti sociali agli insulti diffusi sulla pubblica piazza, dallo schiavismo nelle nostre campagne alle morti lungo le nostro coste. Corpi disumanizzati per battaglie politiche e ideologie malsane che rimangono ingabbiati in specifiche categorie da cui si possono facilmente prendere le distanze. Sono i migranti, i braccianti, gli africani, gli afroitaliani. Quelli che si possono chiamare ne*ri perché tanto non c’è nulla di male e se qualcuno aggiunge di merda, è solo un’uscita di cattivo gusto.

Corpi neri rilegati a un immaginario di inferiorità e pregiudizio che nessuno è realmente intenzionato a scardinare. Se però si dimostrano mansueti possono diventare strumenti decorativi per mettere un po’ di colore qua e là, purché siano abbastanza integrati. Tutti gli altri sono talmente lontani dalla linea che separa il privilegio dalla marginalità che anche quando le loro vite vengono spezzate si riduce tutto a qualche orrendo titolone, ma non si ottiene quasi mai giustizia. Non si meritano neanche l’hashtag “Black lives Matter”, super gettonato in questi giorni, e devono accontentarsi di uno sbiadito “Stay Human”, in cui scompare la centralità della nerezza nelle loro vite perdute e sui loro corpi martoriati e restano solo gli altri, i salvatori. Quelli che dall’alto dei loro privilegi possono fare la differenza, ma soprattutto giudicare le ingiustizie altrui ed ergersi a paladini dei diritti umani a casa degli altri.

Quando però il morto o il ferito è in casa nostra la vittima diventa carnefice, se l’è andata a cercare, il movente non è mai razzista e la tragedia resta comunque un caso isolato. Isolato rispetto a cosa? Forse rispetto alla percezione distorta della realtà, non certo alla nostra storia collettiva e al nostro tragico presente.

AllLMViviamo in società razzializzate, qui come altrove, in cui il colore o le origini sono una discriminante. Dobbiamo esserne tutti coscienti, i detentori dei privilegi e coloro che non ne hanno, non certo per generalizzare le colpe, ma per agire insieme affinché la dignità e i diritti si estendano a tutti e allo stesso modo. Perché se non capite che il privilegio è l’elemento che unisce l’assassinio di Minneapolis al caporalato nella Piana di Gioia Tauro o ai gommoni lasciati naufragare nelle acque del Mediterraneo, alle uccisioni degli indigeni in Amazzonia o degli abitanti delle Favelas, all’eliminazione sistematica dei palestinesi in Cisgiordania e alle prevaricazioni contro tutti coloro che sono al di sotto della linea della normalità presunta, vuol dire che continuerò a ripeterlo finché avrò fiato!