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Una delle frasi che ho sentito più spesso in queste settimane, con l’obiettivo di sminuire le proteste contro il razzismo anti-nero in Occidente, è stata: “Anche i neri africani sono razzisti tra loro”.

Quando sento questa affermazione penso che le persone non abbiano ben chiaro il concetto di razzismo nella sua valenza storica e sociale. Questa è la definizione sintetica del vocabolario Treccani:

Ideologia, teoria e prassi politica e sociale fondata sull’arbitrario presupposto dell’esistenza di razze umane biologicamente e storicamente “superiori”, destinate al comando, e di altre “inferiori, “destinate alla sottomissione, e intesa, con discriminazioni e persecuzioni contro di queste, e persino con il genocidio, a conservare la “purezza” e ad assicurare il predominio assoluto della pretesa razza superiore.

La razza è a sua volta definita come:

Popolazione o gruppo di popolazioni che presentano particolari caratteri fenotipici comuni (colorito della pelle, tipo dei capelli, forma del viso, del naso, degli occhi, ecc.), indipendentemente da nazionalità, lingua, costumi […]. Tale suddivisione ha costituito il preteso fondamento scientifico per una concezione delle razze umane come gruppi intrinsecamente differenti e da porre in rapporto gerarchico l’uno rispetto all’altro […].

È ovvio che nessuno di noi (spero) sostenga ancora l’esistenza delle razze biologiche, perché la razza umana è una sola, tuttavia, questo termine è utilizzato quando si parla di razzismo/antirazzismo in riferimento ai diversi gruppi sociali gerarchizzati sulla base delle loro caratteristiche fenotipiche. Per intenderci, sappiamo tutti ad esempio che i bianchi e i neri fanno parte di un’unica razza, ma la società riproduce dinamiche politiche e sociali razzializzate che pongono questi ultimi in una posizione subalterna a causa delle loro caratteristiche fisiche.

Da queste definizioni, mi sembra già chiaro il fatto che sia un controsenso parlare di razzismo tra gruppi che hanno identiche caratteristiche fenotipiche e che l’elemento razzializzante non possa essere riconducibile alla sola nazionalità, lingua, cultura o religione di uno specifico gruppo. Per questo, ad esempio, in Africa sub sahariana si parla più spesso di xenofobia, il sentimento di avversione e ostilità nei confronti degli stranieri, poiché la maggior parte delle discriminazioni è dovuta a sentimenti nazionalisti e territoriali che poco o nulla hanno a che vedere con il colore della pelle o le caratteristiche fisiche e biologiche degli individui o delle comunità.

Tra l’altro, molti dei conflitti locali vengono immediatamente identificati come inter-etnici sulla base di un filtro interpretativo che si limita spesso alla sola superficie, essendo molto difficile per gli osservatori esterni possedere una conoscenza approfondita della storia e dei contesti locali specifici in cui essi si concretizzano. D’altro canto, anche i poteri locali, hanno interesse a lasciar passare questa interpretazione che consente di attribuire responsabilità dirette alle popolazioni, offuscando il ruolo che scelte politiche e interessi economici giocano all’interno di contesti sociali nei quali le colpe e le carenze degli Stati sono spesso evidenti e strutturali.

Una delle principali ragioni di conflittualità riguarda infatti la gestione e il controllo dei territori e delle risorse, non soltanto a livelli nazionali e macroeconomici (all’origine di guerre decennali nel Continente in cui l’intervento di attori esterni ha sempre avuto un ruolo fondamentale nell’intensificare le fratture anziché placarle), ma anche a livelli di sussistenza. In un continente in cui l’origine geografica e le abitudini comunitarie incidono fortemente anche sulle attività che si svolgono per vivere e in cui la maggior parte delle popolazioni è ancora dedita a lavori primari come allevamento, pesca ed agricoltura, l’amministrazione delle terre e delle risorse ha un ruolo primario nelle diatribe molto più che l’aspetto etnico o religioso dei gruppi coinvolti.

Gli agricoltori stanziali cristiani si scontrano con gli allevatori nomadi o semi-nomadi mussulmani perché rovinano i loro raccolti non per la fede che professano; i pescatori locali si disputano con gruppi provenienti da coste in cui la pesca non è più redditizia perché sottraggono le loro risorse ittiche e sconvolgono i loro equilibri di sussistenza non perché appartengano ad un’altra etnia; la concessione a gruppi alloctoni di terreni coltivabili appartenenti a una comunità rurale da parte dei capi terrieri diventa ragione di controversia quando si rivendicano diritti di proprietà illegittimi sulla base di un’occupazione prolungata non perché chi compie l’abuso abbia un colore o una sfumatura diversi e così via.

Pertanto, la categorizzazione etnica è spesso uno specchietto per le allodole che si utilizza per solleticare risentimenti preesistenti, anche profondi, ma di altra natura, allo scopo di innescare un motore identitario facilmente strumentalizzabile in grado di ridurre vecchie e nuove rivendicazioni economiche, politiche, culturali e sociali, delle quali i governi non sono in grado di farsi carico, a una generica intolleranza inter-etnica.

azziQuesto non vuol dire che in Africa non esistano discriminazioni e pregiudizi, ma non hanno nulla a che vedere con il razzismo strutturale di cui si parla molto in Occidente, soprattutto in questo periodo. Esso è un sistema nel quale si intrecciano metodicamente scelte politiche, pratiche istituzionali, rappresentazioni culturali e dinamiche sociali che perpetuano una disparità di trattamento su base razziale, all’interno del quale si attribuisce, da un lato, un valore normalizzante e privilegiato a tutto ciò che è riconducibile al gruppo dominante, identificato un po’ ovunque con la bianchezza, e, dall’altro, un ruolo subalterno e una posizione di svantaggio a tutti coloro che appartengono invece alle minoranze razzializzate.

Non si tratta quindi di generiche discriminazioni perpetrate da alcuni membri o parte delle istituzioni all’interno di una società, ma di un concatenarsi di pratiche sociali, economiche, politiche e culturali che strutturano dalle fondamenta il sistema stesso in cui si vive.

In quest’ottica, possiamo dire che esista anche in Africa un razzismo strutturale che si basa anch’esso sullo stesso principio di razzializzazione della società di cui si parlava in precedenza.

Pensiamo ad esempio ai paesi del Maghreb dove il razzismo anti-nero e i sistemi di schiavitù da parte dei gruppi di origini arabe-berbere sono una piaga secolare ancora molto putrida e della quale si parla ancora troppo poco.

Non sto assolutamente sminuendo l’importanza e l’impatto di queste realtà sul Continente, ma vorrei che si riuscisse ad analizzare un argomento così complesso come il razzismo strutturale avendo ben chiaro ciò di cui stiamo parlando e contestualizzando i fatti e le realtà senza mescolare tutto in un unico calderone.

Per questa ragione, ho deciso di condividere con voi quest’altro breve post in cui vi parlo di uno degli aspetti più interessanti della varietà culturale della Costa d’Avorio (e immagino di altri paesi africani): le alleanze inter-etniche. Tale elemento non solo si ricollega all’argomento di questo articolo, ma credo mostri quanto sia controproducente generalizzare su tali tematiche, senza tenere conto delle specificità dei singoli paesi e della loro storia quando si parla di Africa o di popoli africani.

Ritengo che il continente africano e le comunità nere in generale abbiano indubbiamente molti problemi irrisolti, sono anche convinta però che andrebbero affrontati tenendo conto delle relative peculiarità e potremmo trovare dei tempi e degli spazi specifici per farlo e discuterne. Quando invece si parla di razzismo in Italia, cerchiamo di concentrarci su quello e non deviare l’attenzione su altro perché credo sia poco utile addentrarsi in similitudini tra contesti molto diversi, soprattutto se non si conoscono fino in fondo le realtà che si vorrebbero porre a confronto.

Mettendo quindi insieme tutti gli elementi di queste lunghe premesse, ossia l’elemento fenotipico che è alla base della razzializzazione sociale, le diverse modalità in cui i sistemi sociali si sono sviluppati nel tempo e nel corso della storia, l’impatto del privilegio bianco nelle dinamiche globali degli ultimi secoli, dubito fortemente che si possa comparare il razzismo strutturale in Occidente con altri tipi di intolleranze e discriminazioni (seppure diffuse) tra neri in Africa. Mi spaventano anche le teorie che individuano nelle diversità etniche e culturali uno dei principali problemi del continente africano e delle nostre realtà multietniche perché non è certo attraverso l’appiattimento delle specificità di ognuno che potremo ritenerci soddisfatti delle società che andremo a costruire.