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In questi giorni abbiamo assistito ad una delle diatribe più assurde sulla questione dei migranti degli ultimi decenni. Da una parte, gli eroi salvatori di vite umane, dall’altra, i carnefici senza pietà. E mi chiedo come sia possibile ridurre una questione così complessa e articolata, che tocca la vita di migliaia di persone, coinvolge paesi da una sponda all’altra del Mediterraneo e implica le responsabilità di entità politiche sovranazionali di due continenti (Unione Europea e Unione Africana), ad una rappresentazione che sembra una partita di ping pong, in cui ogni colpo rappresenta un’offesa, una provocazione e uno slogan rinviati all’avversario, mentre le due fazioni di tifosi, diametralmente opposte, fanno la ola ad ogni punto conquistato e i migranti, come una pallina, sbattono in un campo e nell’altro.

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Sia chiaro, la vita umana va SEMPRE rispettata e tutelata ed è giusto che si accolga con plauso il coraggio e l’intraprendenza della capitana Carola o di chiunque altro si dedichi a soccorrere e a portare in salvo le persone abbandonate in mare, ma il punto non è questo.

Il vero problema è l’immagine svilente e distorta, incollata addosso a queste persone e alle loro esistenze, che emerge da questa lotta mediatico-politica e intellettuale, fondata su due visioni semplicistiche, quanto falsate: per la sinistra sono “esseri umani in cerca di dignità”, per la destra “invasori parassiti che rubano il nostro benessere”.

Non voglio soffermarmi troppo su questa seconda posizione perché è evidente che si tratti di una propaganda mirata che ben poco corrisponde alla realtà dei fatti, ma mi permetterei di suggerire una strategia di contrasto basata sull’offuscamento della visibilità. Ossia, smettiamola di dare risalto alle uscite sensazionalistiche e volutamente esagerate, nonché irrealizzabili, di coloro che sanno, meglio di chiunque altro, strumentalizzare la risonanza mediatica per conquistare consensi.propaganda

Non ripubblichiamo all’infinito quei volti dagli sguardi indemoniati o meschini, sbraitanti durante un comizio o compiaciuti con un paninozzo in bocca, non diamo seguito a provocazioni deliranti o a insulti gratuiti, perché nell’intento di voler dimostrare la loro disumana insensibilità finiamo per fare il loro gioco senza neanche rendercene conto e premiarli con una presenza costante e martellante su qualsiasi mezzo di informazione e comunicazione. Fate copia e incolla di articoli o interventi che ritenente interessanti, indicandone certamente la fonte, ma non ricondividete titoli aberranti, immagini vomitevoli, citazioni piene di odio. Ora basta!

Allo stesso tempo, cerchiamo di andare oltre gli slogan del “restiamo umani” e “abbattiamo le frontiere” perché anche questa visione non apporta alcuna soluzione concreta. L’idea apparentemente solidale di “dare dignità alle persone” contiene in sé il messaggio implicito e, secondo me, profondamente razzista, che l’unico modo in cui un africano possa sperare in una vita dignitosa sia quello di giungere in Europa, dove tutte le sue pene saranno ripagate e dove troverà una società umana e aperta, in grado di accoglierlo e offrirgli tutto quello a cui ha sempre aspirato. È ovvio che rispetto all’inferno libico anche la depressa Europa è in confronto un paradiso, ma siamo così sicuri che, in tutto questo percorso, le persone non abbiano lasciato, in fondo, la loro dignità nel luogo di origine che hanno abbandonato?

Non parlo certo di coloro che sono scappati da guerre e persecuzioni nei loro paesi, ma di tutti quelli che, come si dice qui in Costa d’Avorio, vivevano nella “galère”, ossia sotto la soglia di povertà o in condizioni di estreme difficoltà quotidiane, privi della speranza di vedere la propria situazione evolvere e destinati a vivere giorno dopo giorno con la preoccupazione di guadagnare almeno quei 3.000 franchi cfa (4,50 euro) per dar da mangiare alla propria famiglia. Cosa che non avrebbe mai consentito loro di abitare in una casa sicura, di nutrirsi adeguatamente, di curarsi in caso di bisogno, di istruire i propri figli e via dicendo.

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Indubbiamente, in queste condizioni, l’idea di lavorare per 12 ore al giorno in un campo di pomodori nel sud d’Italia per 3 euro l’ora non è una cosa così spaventosa, soprattutto se si ritiene, come pensano in molti, che sia solamente la prima tappa di un percorso evolutivo che porterà, in qualche anno, all’ascensione sociale.

Questo è il vero inganno! Le persone partono perché credono (spesso giustamente) che la loro condizione nel paese di origine, nonostante tutti gli sforzi possibili e immaginabili, non cambierà mai e che saranno destinate a “galérer” per una vita intera; mentre confidano, e quindi sperano, che una vita oltremare possa garantire loro un salto qualitativo e un’affermazione personale che in realtà non arriveranno (quasi) mai.

In tutto ciò, però, sfugge un po’ a tutti il vero concetto di dignità: agli europei perché hanno la tendenza a confonderlo con il concetto di benessere materiale, agli africani perché danno per scontate alcune dinamiche socio-culturali proprie del loro bagaglio personale.

Mi spiego meglio, nelle mie conversazioni ormai quasi quotidiane con ivoriani, più o meno giovani, che intendono raggiungere, in un modo o nell’altro, l’Europa, uno degli argomenti che più di ogni altro attira la loro attenzione e li riconduce alla ragionevolezza è proprio la questione della dignità.

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In Costa d’Avorio puoi anche non avere nulla, ma nessuno può toglierti il ruolo sociale che la cultura e le tradizioni ti attribuiscono all’interno della comunità, della famiglia, del villaggio o del quartiere. Tutti, prima o poi, saranno “grand frère/grande soeur, tonton/tantie, papa/maman” di qualcun altro e questo andrà di pari passo con l’assunzione delle relative responsabilità e le dimostrazioni di rispetto da parte degli altri. Passare da questo all’essere percepito come un numero o un oggetto, un peso di cui liberarsi, un problema che deve essere risolto, in un contesto in cui si perde ogni punto di riferimento e ogni certezza, è già un primo tassello di dignità che scompare.

Il secondo si offusca nel momento in cui inizi a renderti conto che la tua storia e il tuo passato, che un tempo avrebbero costituito il tuo bagaglio di valide esperienze, non ti appartengono più completamente, che qualcuno si prenderà la briga di giudicarle adeguate oppure no, che sarai costretto a mentire e reinventarti un vissuto triste e credibile per essere all’altezza di ciò che gli altri si aspettano da te, che dovrai riuscire a smuovere la pietà e la compassione delle persone per ricevere anche solo un po’ di aiuto e sostegno.immigrazione

Poi continui a mentire, anche alla famiglia e a tutti quelli che hanno riversato tante aspettative in questa tua avventura, le stesse persone con le quali prima condividevi tutto e che ora ti sembra di tradire. Ed ecco che un senso di colpa si insinua accanto alla solitudine emotiva ed interiore, mentre il terzo tassello crolla e, con lui, vacilla anche la convinzione di potercela fare.

Fino a quando realizzi che sei solo un ne*ro di merda e, quasi quasi, inizi a pensare di esserti meritato tutto questo, anzi, devi pure ringraziare che non ti caccino a calci in culo e non ti rispediscano come un animale in un lager nord africano; nel frattempo anche il quarto tassello non c’è più, è svanito insieme all’autostima per te stesso e alla fierezza per le tue radici.

Ne resta ancora uno, ma devi decidere se giocartelo mendicando davanti a un supermercato, perché l’aiuto basato sulla condivisione che tu conoscevi, qui si trasforma in elemosina; oppure rientrando come un perdente quando ti rimpatrieranno, sapendo che tutte le menzogne dette, a quel punto, verranno a galla. A te la scelta, tanto la nostra coscienza è ormai pulita, ti abbiamo aiutato e pure troppo, avanti il prossimo!

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E il prossimo non è uno solo, ma sono centinaia di bambini, di uomini e di donne di cui si parla ogni giorno in termini assistenzialisti ed emergenziali senza neanche prendere in considerazione il fatto che si possa essere poveri, ma con dignità; meritarsi il rispetto degli altri anche vivendo in una bidonville; che la solidarietà di cui si gode ogni giorno a casa è sempre meglio dell’implorare la compassione di chi si erge a tuo salvatore. Questo è quello che emerge quasi sempre alla fine delle conversazioni, una presa di coscienza del proprio valore e della propria rispettabilità che, a quel punto, non si è più disposti a mettere in discussione, né a lasciare che altri ne facciano un uso strumentale per vincere la coppa del consenso durante una partita simbolica di ping pong.

Purtroppo, però, tutto questo non si vede e non si tiene in considerazione nel dibattito e l’approccio che utilizza come argomento difensivo la contrapposizione povertà vs dignità, in un paese fortemente intriso di stereotipi sull’Africa, in cui un vero povero può essere solo rappresentato da colui che muore di fame o malattie e veste di stracci, è perdente in partenza e offre materiale propagandistico buono solo ai discorsi d’odio. Perché, in questa narrazione, un giovane in forze, che magari spinge carriole cariche di merci sotto il sole per 200 fcfa (30 centesimi), che tiene al suo decoro portando abiti decenti di quarta mano, alla sua igiene mostrandosi pulito e ben rasato, è troppo dignitoso per essere considerato un marginale, non rispecchia lo stereotipo e diventa automaticamente uno sfaticato parassita.

Dobbiamo cambiare strategia, lasciare da parte le idee preconcette, ridefinire l’approccio narrativo ed iniziare ad ascoltare queste persone, capire quali siano realmente le loro necessità, i loro sogni, le loro difficoltà e aspettative a monte del percorso migratorio, non solamente quando arrivano allo stremo delle loro esistenze, dopo mesi di violenze psico-fisiche devastanti, e quando l’unica alternativa che resta loro è la morte o il salvataggio in mare.

Quante attività commerciali e imprenditoriali di piccole e medie dimensioni si sarebbero potute realizzare con i 200.000 euro raccolti per le spese legali e le multe della Sea Watch? Quanti nuclei familiari sarebbero potuti uscire dalla soglia di povertà con tutti i miliardi investiti inutilmente in progetti fallimentari di cooperazione allo sviluppo?

Forse è arrivato il momento di domandarci se siamo veramente interessati alla vita reale di queste persone e non solo ai loro corpi da strumentalizzare o se preferiamo continuare a gongolarci nel nostro ruolo di benefattori per sentirci, magari, un po’ meno ipocriti!