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ddlsicurezza, decreto sicurezza, discriminazioni, governo del cambiamento, integrazione, Migranti, non in mio nome, resistenza
Quando penso all’Italia mi appare l’immagine di un vecchio seduto da solo su una panchina al parco, irritato e scontento, mentre attorno a lui tutto sembra muoversi quasi a rilento. Borbotta infastidito mentre guarda la coppietta scambiarsi effusioni sulla panchina accanto; storce il naso quando due ragazzi passano davanti a lui facendo footing e alzando un po’ di polvere; fa un sussulto di spavento sentendo un cane che abbaia per richiamare il suo padrone; fino a che il suo animo scorbutico prende il sopravvento e, rivolgendosi a dei ragazzini che giocano rumorosamente a calcio sul prato, grida: “Piccole pesti, non vi hanno insegnato l’educazione? Fatela finita con tutto questo baccano! Siamo in un luogo pubblico, mica a casa vostra!”.
Una frustrazione covata nella solitudine, in un brontolio quasi silenzioso, che consuma da dentro e dura giusto il tempo di un bacio, di una corsa e di una scodinzolata; un tempo che, alla sua età, sembra essenziale e fin troppo lungo, se proporzionato a quello che ancora gli resta. La frustrazione si tramuta poi in gelosia nei confronti di quella vita gustosa che altri assaporano sotto ai suoi occhi riempiti di ricordi: la dolcezza dei giorni felici in cui i teneri gesti della sua defunta amata gli scaldavano il cuore; il vigore che percepiva in ogni muscolo teso dallo sforzo quando sfrecciava in bicicletta per il quartiere; il senso di potere che provava mentre guidava il suo mastino lungo le battute di caccia.
Quella gelosia diviene infine rancore e straborda nel rimprovero alla giovinezza rumorosa che celebra l’inesorabilità del tempo che passa. Gli altri diventano i capri espiatori della sua inadeguatezza, dell’incapacità di raggiungere quella pace d’animo che conduce alla saggezza, all’appagamento serafico di un’esistenza completa e compiuta.
Questo è ciò che siamo diventati, un paese vecchio e rancoroso, che vomita la propria frustrazione su tutti coloro che mostrano al mondo i fallimenti di cui siamo responsabili. Un’Italia triste e grigia che ha sempre avuto paura di rimettersi in discussione quando era nel pieno delle sue forze, che ha rinunciato ad evolvere con il passare del tempo, quando esso non era ancora irrimediabilmente giunto al punto di non ritorno, e non è stata in grado di acquisire il buonsenso necessario per passare il testimone alle giovani generazioni, come un’eredità familiare, ma che ha cercato invece di schiacciarle sotto il peso della propria senilità.
Ed è così che anche i giovani sono diventati già vecchi, hanno l’animo incartapecorito di insoddisfazioni, hanno assorbito tutto il risentimento generosamente concesso da una società ostile ed individualista che ha tradito gli insegnamenti di solidarietà e civismo tramandati dalle generazioni dei nostri avi, quelli che hanno risollevato un paese annientato da guerra e sofferenze caricandoselo sulle spalle, portando ognuno il peso che era in grado di sostenere, come tante formichine laboriose capaci di trasportare insieme persino un elefante.
Noi siamo i figli e i nipoti di questi anziani d’altri tempi che abbiamo deciso di lasciare in disparte e far tacere, dimenticandoci delle loro vite e disonorando la loro memoria; nel frattempo, siamo diventati i vecchi solitari su quella panchina in mezzo al parco e abbiamo deciso che la nostra salvezza dovesse consistere nel calpestare la dignità di tutti quelli che ci obbligano a guardarci allo specchio. Vediamo il nostro riflesso di miseria umana e degrado, ma pensiamo in realtà che si tratti di qualcun altro: un mendicante che chiede qualche spicciolo per mangiare, una famiglia che occupa una casa per non restare sotto un ponte, un migrante che chiede accoglienza per una vita migliore, un rifugiato che vorrebbe protezione per sfuggire alla sofferenza. Il loro fallimento è, in sostanza, la quintessenza del nostro decadimento.
Nella realtà lontana in cui vivo, distante non solo in chilometri geografici ma anni luce in termini di ricchezza umana, esistono certamente dinamiche collettive distorte e comportamenti relazionali malsani, tuttavia, su una cosa non ci sono dubbi: astio e gelosia convogliano sempre verso l’alto. Perché che senso ha prendersela con chi sta peggio di noi? Come si fa a provare invidia per qualcuno che s’aggrappa alla vita con i denti per uscire da una condizione di miseria? Quanto bisogna essere perfidi per godere delle sofferenze di chi ha già dovuto spalare talmente tanta merda da avere più contatti con le mosche che con veri esseri umani, in una baracca maleodorante ai margini delle nostre città?
Questo è quello che qui verrebbe definito come la vera “sorcellerie”, ossia la stregoneria, che solo marginalmente riguarda le pratiche magiche, ma comprende invece tutti quei gesti e comportamenti compiuti con lucida cattiveria per nuocere l’altro e che, inoltre, non portano a nessun reale vantaggio per la persona che li compie. La semplice e pura malvagità!
Vecchi sorciers, ecco quello che siamo diventati e di cui andiamo solennemente fieri. Questo è il vero unico cambiamento al quale stiamo assistendo! Purtroppo per noi però, quando il cuore imputridisce, intorno resta solo odio e paura, il sospetto s’insinua come un tarlo che si nutre della nostra polpa cerebrale, mentre la lucidità scompare tra i suoi escrementi, piccoli residui di umanità che non possiamo far altro che gettar via perché ormai alterati e putrefatti.
E si finisce a vivere tra insensate paranoie collettive, esaltazioni d’ignoranza diffusa e manie sicuritarie da sceriffi de noantri, ma come si dice a Roma: “chi va pe’ ‘sti mari, riccoje ‘sti pesci”! Ecco, raccogliamo una bella vita di merda, da cui può scampare solo chi continua ogni giorno a rivoltarsi e a resiste!
Punto di vista interessante, condivido. Grazie, Giovanni
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Grazie Giovanni!
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