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Sono passati esattamente tre anni da quando ho deciso di immergermi nelle mie radici africane, un tempo che è trascorso in fretta, senza quasi rendermene conto.

Sono partita con una voglia immensa di scoprire, conoscere e ascoltare, ma non dimenticherò mai il senso di incertezza che mi ha accompagnato per mesi prima di questo viaggio potenzialmente definitivo. Non era paura, ma una sorta di eccitazione accompagnata a tratti da fremiti di insicurezza, un po’ come trovarsi ai bordi di una falesia alta 20 metri ed essere sul punto di tuffarsi nel blu profondo del mare da un’altezza che ti fa mancare il fiato. L’idea di saltare nel vuoto produce adrenalina pura, ma anche un peso insostenibile allo stomaco; poi salti e provi un senso di libertà che vorresti rivivere ancora e ancora.

È con questo senso di libertà che mi sono ritrovata a sorvolare i cieli sopra Abidjan, in una notte limpida ed eccezionale, dopo aver pianto lacrime di gioia per aver trovato il coraggio di lanciarmi in questa avventura, di tristezza pensando alla mia vita precedente che di lì a poco sarebbe diventata un’esistenza lontana circa 5.000 chilometri.

abidjan

Chi ha vissuto l’esperienza della migrazione sa benissimo di cosa parlo, quello che invece forse ha una valenza per me speciale è il peso emotivo che unisce il mio punto di partenza a quello di arrivo. Sono tanti i motivi per i quali si decide di lasciare la propria terra per mettersi alla prova altrove e molte le ragioni che incidono sulla scelta di una destinazione privilegiata rispetto a tante altre potenziali, nel mio caso, tutto era legato a un bisogno interiore, ossia riappropriarmi della mia complessità.

Attribuiamo spesso una connotazione negativa a questa parola e tendiamo ad associarla ad idee come complicazioni e problematicità. Io preferisco considerarla come una condizione che va oltre la linearità, un intreccio multi sfaccettato e mutevole che racchiude in sé elementi apparentemente distanti e opposti, i quali, nonostante questo, convivono fondendosi in un unico insieme.

passaportiQuesta sono io, questa è la mia identità. Quando mi chiedono se mi sento più italiana o più ivoriana, mi rendo conto di quanto sia difficile per gli altri comprendere queste dinamiche identitarie così intime e personali, poiché già la domanda in sé implica una scelta, presuppone un’esclusione o una predominanza, elimina la possibilità di una complementarità che invece è oggi alla base della mia percezione di me stessa.

Avevo bisogno di questo viaggio proprio per questo, per raggiungere un equilibrio che in Italia sarebbe stato impossibile, a causa di un gioco socio-psicologico che spinge molti misti a dover sempre dimostrare il proprio tasso di italianità. Perché per quanto ci si possa sforzare di mantenere viva anche l’altra metà (ed è già una ricchezza di cui non tutti possono beneficiare), si ha la tendenza, anche inconsapevolmente, a renderla silenziosa, assopita, celata. L’Italia per me, da questo punto di vista, con la sua mentalità provinciale e la sua chiusura sistematica nei confronti di tutto ciò che esce dall’ordinario, è sempre stata come una gabbia invisibile all’interno della quale non ho mai smesso di dibattermi.

Dopo tre anni in Costa d’Avorio, oltre ad aver imparato tantissime cose che mi hanno permesso di osservare il mondo e la vita con nuove prospettive, posso dire di aver raggiunto il mio obiettivo principale e di aver finalmente trovato quell’equilibrio che mi consente di vivere liberamente la mia “mixité”. È stato un lavoro interiore in primis al quale però ha contribuito il fatto di ritrovarmi in una comunità aperta ed accogliente che ha facilitato e accompagnato il mio percorso introspettivo come mai era successo fino ad ora.

Infatti, nonostante sia evidente a tutti che non sia cresciuta qui in Costa d’Avorio e la mia carnagione chiara lasci subito intendere che perlomeno il 50% del mio sangue sia bianco, la maggior parte delle persone non mette in dubbio la mia ivorianità, né da un punto di vista sociale, né legale. La mia diversità è accettata come una cosa normale e non è il metro di giudizio sul quale si basa la mia appartenenza a questa comunità, perché è evidente a tutti che la mia esperienza di vita non mi consentirà mai di pensare e comportarmi come un ivoriano medio, ma che problema c’è? A quanto pare nessuno! Anzi, il fatto che dopo tanti anni vissuti in Europa io sia riuscita ad inserirmi completamente nel tessuto sociale e culturale del posto, trovando la mia personale chiave di lettura, genera stima e rispetto reciproci. Nessuno pretende che io sia ciò che non sono, quindi la mia parte ivoriana è felice di essere ritornata a casa e quella italiana è libera di esprimersi e prosperare anche al di fuori dei suoi confini geografici.

Inoltre, per la prima volta nella mia vita, l’identità mista della quale sono ereditaria è stata riconosciuta anche da un punto di vista professionale come un valore aggiunto. In effetti, ho criticato per anni l’incapacità dell’Italia di rendersi conto delle potenzialità delle seconde generazioni, anche da un punto di vista economico, quando invece altrove hanno saputo trasformare questa ricchezza in opportunità. Adoro il mio lavoro soprattutto per questo, perché mi ritrovo a svolgere un ruolo di intermediaria tra i due mondi cui appartengo e vedo finalmente riconosciuto il giusto valore alla diversità, che diventa una risorsa e prevale sulla chiusura mentale di voler a tutti i costi incasellare o semplificare il vissuto e l’identità di un individuo.

Ero partita con l’intento di non avere aspettative per evitare che potessero essere deluse, mi ero imposta di vivere questa esperienza con lo spirito di una bambina che osserva e ascolta senza pregiudizi perché ha ancora tutto da scoprire e da imparare, sapevo che sarebbe stata un’esperienza profonda e intensa, ma oggi, ancor più di allora, mi rendo conto di quanto fosse necessaria.

Per questo motivo mi sento di consigliare a tutti i misti che leggeranno questo post, anche se per ora credono di non sentirne il bisogno, di lasciare sempre uno spiraglio aperto alla metà che resta nell’ombra, perché anche se non si vede c’è e prima o poi probabilmente scalpiterà per venire alla luce. Consentitele di uscire fuori allo scoperto e siate pronti ad accoglierla quando e se questo avverrà.

E voi, genitori di figli misti, non mettete la testa sotto la sabbia pensando che vostro figlio sia “molto più italiano” perché potrebbe un giorno sentirsi imprigionato in questa semplificazione e ritrovarsi solo e senza strumenti a fronteggiare una complessità che non saprete neanche voi come gestire. Accompagnatelo e aiutatelo a mantenere vivo il legame con le sue origini e magari anche lui un giorno deciderà di spiccare il volo alla ricerca delle proprie radici, perché come dice un proverbio cinese: “Vi sono due cose durevoli che possiamo sperare di lasciare in eredità ai nostri figli: le radici e le ali”!