Qualche anno fa avrei attribuito gli atteggiamenti di alcuni all’ignoranza, mi sarei detta che in fondo certe persone parlano di cose che non conoscono e le avrei invitate a seguirmi qui, in Costa d’Avorio, per qualche mese, giusto per mostrare loro come vivono le persone che fuggono alla ricerca di una vita migliore.
Oggi, dopo anni che vivo in questo paese penso che l’ignoranza sia una bella scusa e che la spiegazione risieda in un’assenza completa di empatia, in un’avarizia senza scrupoli e in un’abbondante senso di superiorità, gli unici veri elementi che accomunano la cultura dei nostri paesi europei, molto più delle radici cattoliche, dell’euro e del trattato di Schengen.
Mi riferisco a tutte quelle persone che, in maniera sempre più diretta, negano la libertà di alcuni a fuggire da violenze e miserie, sminuendo il peso delle loro sofferenze, e giudicano quelle vite indegne di condividere con loro luoghi e momenti, come se il tempo e lo spazio fossero un privilegio esclusivo nelle mani di chi vive nel benessere.
Recentemente ho sentito persone dire di voler essere trattate da privilegiati come i profughi o i migranti. Wooow, dei privilegiati? Questa è da guinness dei primati per la frase più ottusa del secolo. Ma veramente una persona sana di mente può ritenersi più sfigata di un profugo o di un migrante? Cioè, ripigliamoci gente!
L’ignoranza non c’entra un fico secco. Conosco tanti italiani qui ad Abidjan che hanno la fortuna, se così posso definirla, di vivere a contatto con la realtà dalla quale fuggono molti migranti. Nonostante osservino tutto attraverso i filtri di protezione dovuti al loro status sociale, quindi al fatto di essere dei bianchi occidentali benestanti, non serve un grande spirito di osservazione per rendersi conto delle disuguaglianze sociali e delle condizioni di vita impossibili per alcune categorie di persone.
Sono sotto gli occhi di tutti le baracche con i tetti in lamiera accanto alle discariche a cielo aperto annidate alle spalle dei bei quartieri residenziali dove loro vivono in grandi e moderni palazzi – costruiti da manovali sottopagati, che lavorano per 12 ore al giorno senza alcuna protezione di sicurezza, con un caldo umido che non ti fa nemmeno respirare – e sapendo che è da lì che provengono i loro domestici con le scarpe bucate e i vestiti consunti a cui danno un salario da miseria.
Tutti loro, almeno una volta, sono passati barricati nei loro SUV superinquinanti per le strade periferiche cosparse di fango durante il periodo delle piogge, osservando giovani che combattono contro la melma per spingere a mani nude dei carretti carichi di tonnellate di merci da consegnare; donne sedute a terra nel lerciume accanto a mucchi di pesce e verdure maleodoranti da vendere; bambini che giocano a calcio, tra un rivolo contaminato e un canale di scolo puzzolente, con le scarpette di gomma con le quali noi camminavamo da bambini sugli scogli per proteggere i nostri piedini delicati.
Ogni giorno vedono gente che farebbe di tutto per uscire da quella povertà e loro sanno benissimo di rappresentare il miraggio di una vita fortunata che probabilmente agli altri non apparterrà mai. Non sto parlando di italiani ricchi, ma degli italiani in Africa, ossia di quelle persone appartenenti alla classe media che, nella maggior parte dei casi, sono venute a lavorare qui esclusivamente per questioni economiche perché, in linea di massima, un espatriato nei paesi del terzo mondo guadagna almeno il triplo che in Italia.
Sono loro i coloni del nuovo millennio. E infatti, da bravi burini arricchiti quali sono, loro che non contavano un cazzo da dove sono venuti, si ritrovano catapultati in un ruolo che non gli appartiene, circondati da una servitù proletaria che fa scattare quel senso di frustrazione sociale covato per anni. Con le dovute eccezioni del caso, questi personaggi, come i vecchi padroni bianchi di un tempo, lasciano dietro di sé una scia di umiliazioni verbali, sottomissioni psicologiche, denigrazioni personali e offese di stampo razziale.
Quando poi tornano in patria, sono i primi a lamentarsi dell’invasione e a notare come tutto sia cambiato in loro assenza. Non sono più padroni a casa loro, sostengono, e il loro senso di frustrazione, per qualche tempo appagato nel soggiorno in Expatryland, riemerge ancora più violento. Per un breve istante hanno assaporato l’ebbrezza del loro comando e della sudditanza altrui e ora ritornano ad essere insignificanti. Fortunatamente per loro il capro espiatorio è nell’ovile e la pecora si camuffa in leone con l’agnello.
Nel frattempo, e in ritardo cronico come sempre, gli imprenditori italiani stanno scoprendo le opportunità offerte da un mercato in piena espansione con 1 miliardo di potenziali consumatori come quello africano. Il Pil di alcuni paesi è esploso, la mano d’opera non costa nulla, i governi stendono tappeti rossi agli investitori stranieri e con la corruzione non esistono praticamente regole che non possano essere infrante.
È il paradiso per quegli imprenditori taccagni che ben conosciamo, quelli che in Italia assumono i lavoratori in nero, evadono le tasse, se ne sbattono dei diritti e tirano avanti con la concorrenza sleale. L’isola felice per chi si dedica ai traffici illeciti ed è pieno di soldi sporchi da ripulire. Il paese dei balocchi per le grandi aziende che delocalizzano risparmiando risorse e incrementando i loro benefici, perché tanto il salario minimo garantito è di circa 90 euro/mese (60.000 FCFA) e chi se ne frega se è ben al disotto del costo effettivo della vita, tanto c’è una fame di lavoro tale che la gente da sfruttare abbonda!
Per non parlare delle aziende agricole che, giocando sulle difficoltà dei coltivatori locali, sottraggono le terre coltivabili per produrre caffè, cacao, olio di palma e caucciù in quantità industriali, rubando spazi utili all’agricoltura locale, distruggendo le capacità produttive dei suoli e costringendo i villaggi a fronteggiare la penuria dei beni di prima necessità. O le compagnie energetiche e minerarie che, se da un lato offrono il loro sostegno economico per fronteggiare i danni ecologici provocati dai cambiamenti climatici, dall’altro, chiedono in cambio di poter trivellare le acque e i suoli alla ricerca di risorse naturali, come se la sopravvivenza delle persone che vi abitano fosse una merce di scambio per i loro profitti.
Fortunatamente però poi arrivano le ONG, che hanno l’obiettivo di salvare l’Africa. Organizzano programmi di formazione per offrire alle aziende gente sottopagata, ma perlomeno specializzata; sensibilizzano le persone alla sostenibilità ambientale, tanto poi ci pensano le aziende straniere ad inquinare le falde acquifere; realizzano un progetto qua e uno là per tamponare i danni strutturali di un sistema da cui loro stesse traggono la loro ragion d’essere; ma comunque fanno del bene, quindi ben vengano!
In questo scenario, è come se l’Africa fosse una terra liberatoria, dove ci si può permettere, e ci si sente liberi di farlo, tutto ciò che in Occidente sarebbe inconcepibile. Se questo in passato era possibile grazie al controllo diretto delle potenze straniere sui territori e sui cittadini locali, oggi, grazie alla globalizzazione, il furto delle terre, il saccheggio delle risorse e lo sfruttamento delle popolazioni vengono fatti passare per sviluppo economico perché un paese africano con tanti investitori stranieri come la Costa d’Avorio offre un’immagine di successo e di stabilità a livello internazionale. Tuttavia, come ai tempi coloniali, pare che gli enormi guadagni e i numerosi vantaggi siano ad esclusivo beneficio degli stranieri e dei locali corrotti, ma non diciamolo alla gente, perché qualcuno magari un giorno potrebbe pure sentirsi in colpa.
Mi piacerebbe che tutte le persone che non si stancano mai di dire: “aiutiamoli a casa loro”, tenessero conto di tutto questo prima di aprire bocca la prossima volta. Perché non c’è niente da fare, pure se stride alle vostre orecchie, la verità è che continuiamo ad essere responsabili della miseria di questo Continente e allo stesso tempo siamo convinti del fatto che senza di noi esso non possa essere salvato. Sembriamo i serial killer di Criminal Minds che dopo aver strangolato la vittima fino quasi all’asfissia, la rianimano per continuare a torturarla e godere di quel senso di potere che deriva dal disporre della vita e della morte di un essere umano, ma in questo caso parliamo di milioni.
Se l’unica conseguenza negativa di questo nostro agire è dover accogliere qualche migliaio di profughi e migranti, non dovremmo neanche troppo lamentarci perché rispetto alle nostre colpe direi che alla fine ci è andata pure di gran lusso!