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Qualche giorno fa mi è capitato di incontrare un tassista che parlava italiano perché aveva vissuto regolarmente per 15 anni in Italia. Chiacchierando mi spiega: “Sono rientrato da due anni perché amo l’Africa. L’Europa non fa per me, lavori come un mulo tutta la settimana e non ti resta il tempo da condividere con le persone che ami: la famiglia e gli amici. Ho lavorato per 12 anni in fabbrica con regolare contratto e permesso di soggiorno e i miei 4 figli sono nati lì. Al rientro qui, ho comprato 5 taxi e vivo di questo. Potrei far lavorare gli altri e starmene a casa, ma il capo deve dare il buon esempio, e poi un uomo non può sedersi senza fare nulla in attesa che altri fatichino per lui”.

Parla un buon italiano e questo mi fa pensare che nella sua esperienza italiana si sia ben integrato nel tessuto sociale locale. Mi racconta che nei primi anni ha vissuto in Calabria, a Napoli, poi a Perugia e immagino che queste siano state le sue tappe da irregolare prima di trovare una buona sistemazione nella città che lo ha accolto per oltre un decennio, Torino.

In mezz’ora di chiacchierata ho visto scorrere il suo percorso di migrante, che potrebbe essere lo stesso di tanti giovani che approdano lungo le nostre coste, definiti ipocritamente “migranti economici”, ossia coloro che dovremmo “respingere e aiutare a casa loro”.

Quando sento questa frase percepisco tutta la pericolosa superficialità e il meschino distacco di chi sa che non farà mai nulla per cambiare le cose, un po’ come quando incontri un vecchio conoscente e gli dici: “Mi raccomando eh, rimaniamo in contatto”, fai pure il gesto di riprendere il suo numero, ma sai nel profondo che non lo richiamerai mai, anzi, se dovesse trovarti su facebook potresti pure ignorare la sua richiesta di amicizia. Questo è il succo: una frase di circostanza!

help-moreEssa si fonda tra l’altro sull’idea, tutta occidentale, che la cooperazione internazionale sia l’unica soluzione per fronteggiare gli enormi problemi economici e sociali di cui soffre questo continente. In realtà, una simile visione presuppone che le persone da questa
parte del mondo siano immobili, in attesa di aiuti esterni che possano tirarli fuori da povertà e miseria e offrire loro un’opportunità di sviluppo che, da soli, non possono sperare di ottenere. In un certo senso, il concetto espresso da Salvini per motivare il suo  poi fallito viaggio in Nigeria di qualche mese fa.

Milioni di euro sparpagliati in piccoli progetti che durano il tempo di una stagione e che vorrebbero contrastare la desertificazione piantando un giardino di alberi, ridurre la fame coltivando un orticello, combattere la malnutrizione con il latte in polvere, ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici con azioni di sensibilizzazione a pratiche ecosostenibili, abbattere l’analfabetismo con penne e quaderni e via dicendo. Concluso il progetto, finiscono i finanziamenti, i volontari rientrano e le popolazioni ritornano alla loro realtà di sempre: gli alberi si seccano, gli orto muoiono, il latte finisce, l’inchiostro e la carta pure, e le pratiche eco si scontrano con le priorità di bisogni primari da soddisfare.

Certo, alleviare le sofferenze delle popolazioni per qualche mese o qualche anno è già qualcosa, ma non servirà sicuramente a risolvere macro questioni che andrebbero affrontate con progetti di vasta portata in una reale sinergia mondiale, ma soprattutto, tale sistema non tiene conto del fatto che queste persone non sono immobili. Si battono ogni giorno con quello che hanno per fronteggiare le mille difficoltà, con un ingegno e una tenacia che nessuno racconta.

Tutti i giovani che sognano l’Europa per cercare una vita migliore sono il segno del dinamismo, della voglia di lottare per loro stessi e per le loro famiglie, del coraggio di rischiare e della speranza di riuscire. Il fatto di considerarli a priori come dei parassiti sociali mantiene viva quell’immagine d’immobilismo utile a giustificare il nostro intervento invasivo nelle loro terre e il nostro rifiuto ad accoglierli nelle nostre.

Pretendiamo di esportare lo sviluppo attribuendo agli altri le nostre ambizioni, come un padre egoista che impone al figlio di seguire le proprie orme, nella cieca convinzione di possedere la formula esclusiva verso il successo. Quando il figlio busserà alla sua porta chiedendogli la libertà di scegliere, e anche di sbagliare, il padre, con la sua indiscutibile esperienza, lo caccerà privandolo per punizione del suo sostegno morale e soprattutto economico, perché non potrà sopportare di vederlo uscire fuori dai suoi schemi e dal suo controllo.

Il nostro amico tassista, con il suo lavoro onesto, ha pagato tasse e contributi nel nostro paese, ha contribuito al sostentamento dei familiari rimasti in patria con le rimesse inviate, è tornato nel suo paese per realizzare progetti di vita nel posto in cui è nato. Avrebbe anche potuto, come molti altri, decidere di restare scegliendo il nostro paese come la propria casa, forse in questo caso, soprattutto i suoi figli sarebbero rimasti invischiati in un limbo burocratico che li avrebbe resi stranieri nel loro paese fino almeno alla maggiore età, se non peggio, ma questo è altro lungo discorso.

capitalism-exploiting-africaEcco perché esperienze come la sua devono restare all’oscuro dai riflettori per lasciare spazio alle storie di riscatto fallito. Dimostrerebbero come la cooperazione sia una macchina mangia soldi e come i “bisognosi” che abbiamo sempre presunto di dover aiutare, in realtà, possano farcela benissimo da soli, con i loro grandi sacrifici, usufruendo temporaneamente delle nostre risorse che, in fondo, sono in parte anche loro, poiché la nostra ricchezza dipende in effetti da tutto ciò che preleviamo dalle loro terre per il nostro benessere, nascondendoci spesso dietro le bombe quando gli accordi con i dittatori che abbiamo piazzato per tenerli sotto controllo si sfaldano rischiando di farlo vacillare.