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Era da qualche giorno che pensavo di scrivere questo post, poi ho letto la recensione del libro Africa S.p.A., del ricercatore indiano Vijay Mahajan, pubblicata sull’interessante blog dedicato all’Africa Sancara e ho deciso di postarlo.

african-fashion-0904-pp02.jpgPremetto che non sono un’esperta di economia, tuttavia, ascoltando con una certa noia gli infiniti dibattiti inconcludenti sulla crisi economica del paese, mi sono chiesta molte volte come mai nessuno degli “illustri” commentatori parlasse della scarsa lungimiranza delle aziende italiane in termini di internazionalizzazione. Non mi riferisco ovviamente alle ormai diffusissime pratiche di delocalizzazione verso i paesi con manodopera a basso costo o i paradisi fiscali, ma penso più che altro alle opportunità economiche e commerciali offerte dai paesi in via di sviluppo e all’immenso contributo che potrebbero offrire le seconde generazioni in questa apertura verso nuovi orizzonti.

Lascio agli economisti le valutazioni tecniche del caso, personalmente intendo soffermarmi sulle motivazioni che, a mio avviso, condizionano l’approccio degli imprenditori italiani, in particolare delle PMI, soprattutto nei confronti del continente africano che, a priori, non è neanche preso in considerazione.

In molti credono ancora che l’Africa sia la terra dei bonga bonga (citazione colta!), abitata da selvaggi arretrati con culture primitive, un luogo in cui la modernità è un mostro spaventoso, la tecnologia una chimera luminosa, l’istruzione un privilegio occidentale. In realtà, nonostante le numerose contraddizioni e difficoltà oggettive, si dimentica spesso che l’Africa è un continente in pieno sviluppo e in continua crescita, con una popolazione di circa 1 miliardo di persone, di cui i due terzi  rappresentano un concreto bacino di consumatori.

È probabile che la crisi delle azienda italiane dipenda dall’euro, dall’incapacità politica, dal mancato accesso al credito e via dicendo, ma come si può pensare di essere competitivi cercando di vendere i propri prodotti al vicino di casa in cassa integrazione o al cugino spagnolo disoccupato?

Personalmente ho un’altra teoria: siamo talmente presuntuosi da non riuscire ad accettare l’idea che potremmo essere noi ad aver bisogno di questi paesi per la nostra sopravvivenza. Siamo l’Europa e, un tempo, governavamo il mondo; ora siamo vecchi, stanchi, sorpassati, amaramente assuefatti al nostro immobilismo e, forse, ancora non ce ne rendiamo conto.

L’atteggiamento di chiusura nei confronti degli immigrati, il rifiuto di accettare ufficialmente le seconde generazioni come parte integrante della nuova società italiana multirazziale, la presunzione di superiorità culturale affiancata alla considerazione di sprezzante mediocrità dell’altro, sono posizioni che alimentano il nostro isolamento, anche da un punto di vista economico, dietro la giustificazione di proteggere noi stessi.

Non riteniamo gli extracomunitari una risorsa in grado di aprirci gli occhi sul mondo, in quanto pensiamo di conoscerlo già; non consideriamo i loro figli nati in Italia una vera ricchezza, poiché ci convinciamo che appartengano ad un’altra realtà. Preferiamo vivere in una sorta di bolla protettiva che mantiene viva l’illusione di poterci consolare con la nostra visione stereotipata della contemporaneità.

Viviamo in un mondo che non conosciamo, perché non parliamo le lingue straniere e siamo quindi costretti a fare affidamento su intermediari che manipolano la realtà a proprio piacimento; vediamo i paesi del terzo mondo come un ricettacolo di emarginazione, perché le nostre associazioni di idee si limitano all’immagine dei poveri clandestini in cerca di riscatto; temiamo il conflitto religioso, perché fa più clamore una bomba rispetto a un fedele silenzioso che nella propria intimità prega un Dio universale.

La mia è solo un’opinione, ma ritengo indispensabile uscire al più presto dalla nostra bolla di sapone per comprendere che l’Africa non è più un continente da sfruttare o da compatire, ma un interlocutore con cui creare un rapporto di paritaria considerazione.

Concedere i diritti di cittadinanza ai nuovi figli dell’Italia multietnica sarebbe un primo passo coraggioso e lungimirante per concederci nuove opportunità, un modo per riconoscere l’importanza del loro bagaglio bi-culturale, delle loro capacità multilinguistiche, della loro idee emancipate sulla diversità. Sono loro il nostro valore aggiunto, dovrebbero essere loro i nostri veri intermediari, gli occhi attraverso i quali ridefinire il futuro socio-economico del nostro paese.

I paesi africani lo hanno già compreso e, negli ultimi anni, richiamano a raccolta intere generazioni multiculturali, i figli dei loro emigranti, offrendo loro un ruolo di primo piano nei rispettivi processi di sviluppo. E noi, quando ci renderemo finalmente conto dell’immenso potenziale che stiamo sprecando?